di Arianna Luci
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3-10 aprile 2013, PTU, Arcavacata di Rende.
Carissimo amato mio
Ti scrivo dalla nave. E’ un enorme corpo pieno di stomaci e bocche e occhi e cuori. Sono da così tanto tempo in mezzo all’acqua che pure la mia voce è diventata una goccia di suono al centro del corpo. Tutti vomitano gocce di voce per ingannare l’attesa. Il pavimento è di legno, duro, e ci stanno delle tende di stoffa scura attorno, e delle sedie rosse, dove ci raccontiamo delle storie, sul perché siamo partiti e cosa andremo a fare alla fine del viaggio. Tutti più o meno parliamo la stessa lingua, la lingua del limbo, di chi passa e domani è già altrove, vivo o morto. Io mi trovo molto bene con un gruppo di persone che incontro ogni pomeriggio sul ponte. Un certo Leonardo Gambardella di Scalea ha avuto la bella idea di scegliere ognuno uno storia e di formalizzarla un poco, così da dircela come se fossimo al teatro! Amore mio, dovessi ascoltare come sono tutti unici e uguali i racconti. Abbiamo tutti una valigia rattoppata con speranza e consolazione, uno stomaco vuoto, mani consumate e cuori tagliati. Pietro è un tipo introverso, curioso; dice di non appartenere a nessuno, perciò vive su questa nave senza radici. Ogni tanto si ubriaca e piange. Tanti si ubriacano per non vedere quello che stanno cercando, non sentire quello che hanno lasciato. Io cerco sempre nel mare con lo sguardo gli occhi tuoi scuri scuri. Ma quando la nostalgia si mescola al movimento sempre uguale delle onde, pure gli occhi miei si fanno d’acqua, e allora li chiudo per non pensare a quando scenderò da qui e non ci sarai ad aspettarmi. Lo so che ci sarai. Ma ho paura che mi capiti quello che è successo ad Angelina. Lei ha trovato suo marito, partito due anni prima, con un’altra moglie e altri figli, che non erano i suoi. E’ rimasta talmente scossa che ora dice solo ‘Jo. Jo. Jo Jo.’ , come dicono i taliani partiti all’America. Per fortuna ci sta la piccola Remedios, bella come il sole, che illumina i giorni nuvolosi. Più passa il tempo, più lei si chiude dentro di sé però. Ha come paura che gli altri siano dei mostri che le vogliono del male, visto che parla un’altra lingua e non capisce nessuno. A volte nemmeno lo so perché sono qui. Da quando sei partito sono cento anni di solitudine. Manco ti aspetto più. Non so nemmeno chi sono, ho il raffreddore e neppure la voce mi appartiene. Adesso vado a farmi bella per te, per quando scenderò dalla nave domani, e tu mi accoglierai con i fiori giganti che ci stanno là, a Macondo.
Io ti aspetto domani, io ti aspetto domani,
io
ti
aspetto.